Dritti al cuore della consapevolezza

Il silenzio tra due onde

In compagnia di questa lettura, importante guida nella pratica di meditazione di consapevolezza, ho potuto comprendere ancora più a fondo – in qualche modo c’entrava anche una certa contentezza di cuore che la lettura, e la meditazione da questa ispirata, provocava – come addentrarmi nel sentiero che è necessario percorrere per lasciare andare quel tipo di sofferenza inutile autoprodotta da una mente “non coltivata”  cioè inconsapevole di se stessa.

Il libro parla dell’importanza della pazienza, dell’accettarsi per come si è, del grande agio che deriva dall’essere amici di se stessi, con tutte le difficoltà e le imperfezioni che ci abitano (e che tendiamo così spesso a notare ben più frequentemente dei talenti e della bontà che pure agiamo in gran parte della nostra vita), dell’utilità di cogliere consapevolmente, senza giudicare, momento per momento, sia attraverso la pratica meditativa formale, che quella in azione, quello che agita o intorpidisce la nostra mente, i pensieri su cui maggiormente si sofferma, come  tenda a mettersi in relazione con se stessa e con la mente degli altri in modo automatico  e reattivo.

Coltivare mindfulness, quella visione profonda che permette di vedere le cose così come esse realmente sono e che ci permette di entrare in contatto immediato (cioè non mediato dalle proliferazioni e dalle distorsioni percettive mentali) con esse, non è cosa facile, richiede costanza nella pratica meditativa,  fiducia, determinazione, pazienza appunto, umiltà, amore, comprensione, accettazione.

Ma queste qualità non fioriscono dal nulla: possono essere a loro volta coltivate, con consapevolezza.

Ecco allora che, come Corrado Pensa ci dice, praticare diventa un circolo virtuoso: coltivare attraverso la meditazione (formale o informale) consapevolezza, ci permette di coltivare anche quelle qualità mentali che vivificate, rendono possibile stabilizzare e rafforzare la consapevolezza stessa. E la consapevolezza concima a sua volta il terreno nel quale fioriscono le qualità mentali. Così che non vi è l’una senza le altre.

E questo avviene, come ogni tanto posso osservare nella mia esperienza, contemporaneamente e spontaneamente. Accade a volte che, in una qualche situazione di sofferenza, magari un momenti di malumore, o di angoscia o di difficoltà ad accettare qualche emozione, pensiero, sentimento che viene giudicato non opportuno, grazie ad un po’ di consapevolezza presente, sia possibile fermarsi un momento e osservare.

Si nota dunque che fermarsi è possibile poiché è presente la fiducia che ci sia di aiuto,  l’accettazione di quel momento di difficoltà, di quell’avversione che si è affacciata, la pazienza di stare con qualcosa che provoca sensazioni spiacevoli; fiducia, accettazione, pazienza aiutano a stare ancora un poco, ad osservare meglio. Può accadere allora che di fronte a questa sofferenza si apra uno spazio di amicizia, di sollecitudine che si sostituisce all’avversione, da una parte questo ci aiuta a notare il ruolo di questa nel disagio iniziale, dall’altra può accadere che nasca un sentimento di gratitudine per la pratica che rafforza la motivazione a meditare.

 

E proprio la comprensione del valore della meditazione formale  il fattore che più ci è di sostegno nella costanza a praticare. Così, nel dirci questo, Corrado Pensa cita Ezra Bayda (“star bene in acque torbide” Ubaldini, Roma 2007) che scrive:

“Ma capiamo veramente quello che stiamo facendo? E comprendiamo veramente che cosa accade durante il processo della meditazione seduta, che cosa la rende così preziosa?”

Sono cinque i fattori che Ezra Bayda ci dice si sviluppano durante la pratica:

Il fattore della perseveranza, che, come sottolinea Pensa, ci permette “di sostenere la pratica nelle difficoltà e malgrado esse”, e va da sé ci sostiene in senso allargato in tutte le situazioni difficili della vita.

Il fattore della stabilizzazione che si stabilisce sia a livello fisico che psicologico. La mente, il corpo diventano stabili anche in mezzo alla tempesta.

In un ritiro l’insegnante di meditazione Patricia Genoud ci diceva a proposito dell’equanimità di aver letto, se non ricordo male in una insegna in un convento di religiose, questa scritta “se la vostra mente rimane ferma come un sasso e non si scuote in un mondo in cui tutto si scuote, la vostra mente diventerà il vostro miglior amico e la sofferenza non verrà da voi”.

Il fattore della chiara visione. Dice Ezra Bayda “Cominciamo cioè a cogliere con maggiore consapevolezza, quello che facciamo: come pensiamo, come reagiamo, come fantastichiamo”.

Il quarto fattore è cominciare a vedere e ad entrare in contatto veramente e direttamente con il nostro disagio emotivo. Può sembrare un controsenso, perché entrare in contatto con la nostra sofferenza dovrebbe essere auspicabile, tanto da motivarci a praticare? Eppure solo se la guardiamo per così dire in faccia, ne prendiamo atto con tutta l’apertura e l’accettazione che la pratica ci permette, solo se la prendiamo con noi, cioè la comprendiamo attraverso una attenzione sollecita e silenziosa, è possibile permettere che essa si dissolva, come tutti i fenomeni che sorgono e se ne vanno.

Il quinto è la capacità di essere nel momento presente, non più sopraffatti da una mente che ci trascina in una realtà che non esiste, un passato che non c’è più o un futuro che non c’è ancora, ma nell’unica realtà nella quale veramente possiamo agire, e cioè momento per momento qui ed ora.

E questo non significa che non sia utile o sia fonte di sofferenza soffermarsi a ricordare o a riflettere su ciò che è stato o progettarsi in ciò che potrà essere: è una questione di consapevolezza e di equanimità.

Come dice il Buddha nel “Bhaddekaratta Sutta”:

“quando qualcuno pensa a come era il suo corpo … le sue sensazioni …. Le sue percezioni … le sue formazioni mentali … la sua coscienza … in passato, e la sua mente è oppressa e attaccata a queste cose che appartengono al passato, allora quella persona insegue il passato”

Così come

“quando qualcuno pensa a come sarà il suo corpo … le sue sensazioni …. Le sue percezioni … le sue formazioni mentali … la sua coscienza … in futuro, e la sua mente è oppressa e fantastica su queste cose che appartengono al futuro, allora quella persona si perde nel futuro”

Viceversa

“quando qualcuno pensa a come era il suo corpo … le sue sensazioni …. le sue percezioni … le sue formazioni mentali … la sua coscienza … in passato, ma la sua mente non è schiava né attaccata a queste cose che appartengono al passato, allora quella persona non insegue il passato”

“quando qualcuno pensa a come sarà il suo corpo … le sue sensazioni …. le sue percezioni … le sue formazioni mentali … la sua coscienza … nel futuro, ma la sua mente non è oppressa e non fantastica su queste cose che appartengono al futuro, allora quella persona non si perde nel futuro”.

Perdersi, inseguire: termini che hanno in sé qualcosa di incompiuto, che ci conducono lontano da noi, che sanno di abbandono.

In fondo credo che molto si riduca semplicemente a starci vicini, tanto vicini da poterci finalmente vedere, ma senza essere confusi, identificati con ciò che è oggetto della visione. E per poterci stare vicini, dobbiamo essere nel presente, poiché è il presente l’unica realtà nella quale ci possiamo trovare.

Mi viene in mente il termine ” d’appresso”, sa di accudimento, ma anche di attenzione, di costante presenza, di accettazione, “mettere il piede nella stessa orma”: ecco mi piace pensare che la meditazione di consapevolezza sia il modo in cui possiamo essere “d’appresso” a noi stessi, mentre sperimentiamo, così come possiamo, così come siamo capaci, la vita che si snoda via via nel momento presente.

Author

Bianca Pescatori

Psicoterapeuta libero professionista ad orientamento psicodinamico e cognitivista.
 Ha collaborato e collabora con enti pubblici e privati per quanto riguarda la gestione dello stress attraverso i protocolli mindfulness Based e ricerche correlate, tra cui l’Università La Sapienza, dipartimento di psicologia e il policlinico dell’Università di Tor Vergata.